Il controllo dipendenti è da sempre foriero di dibattiti e interpretazioni giuridiche. Questo aspetto coinvolge infatti diritti fondamentali sia in capo al datore, sia al lavoratore e richiede pertanto un preciso contemperamento degli interessi in gioco.
Il rapporto di lavoro subordinato è quel negozio caratterizzato appunto da una subordinazione con cui il lavoratore si impegna a fornire una prestazione professionale in cambio di una retribuzione e a prestare la propria opera sotto la direzione di un altro soggetto, il datore.
I principali obblighi che derivano da questo rapporto sono, per il dipendente, quelli di fedeltà e di diligenza nell’esecuzione della prestazione mentre il datore è tenuto a retribuire il lavoratore e ad adibirlo alle mansioni previste dal contratto tra le parti come previsto dagli articoli 2103, 2104 e 2105 del c.c.
L’ordinamento italiano riconosce e tutela, addirittura a livello costituzionale, la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro che ha il diritto di dettare le regole per l’esecuzione del lavoro, nel rispetto della libertà e della dignità umana. Ne deriva pertanto il diritto di controllare che la prestazione dei dipendenti sia eseguita in conformità alle proprie direttive e a quanto previsto dal contratto di lavoro.
Il dipendente, dal canto suo, come ogni individuo vanta un diritto al rispetto della propria privacy e – come già detto – al rispetto della dignità personale, nonché della libertà di espressione.
Qual è allora il punto di equilibrio tra gli opposti interessi? Semplificando possiamo dire che il datore è legittimato a controllare l’operato del proprio dipendente ma trova un limite nel divieto di controlli lesivi dei diritti inviolabili e, in linea di massima, anche di alcune forme di controllo occulto.
Per molto tempo i limiti al controllo sui dipendenti sono stati regolati dall’art.4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) che sanciva, nella sua lettera originaria, un divieto pressoché totale di controllo dei lavoratori da parte del datore mediante impianti audiovisivi o altri strumenti. Lo stesso articolo prevedeva – pur subordinandola a un accordo con le rappresentanze sindacali – la possibilità di un controllo a distanza indiretto del dipendente qualora ricorressero esigenze di carattere organizzativo e produttivo o di sicurezza.
Sintetizzando, gli impianti audiovisivi non potevano essere installati per verificare la precisa esecuzione della prestazione professionale, né per monitorare se il dipendente fosse o meno al suo posto. Restavano tuttavia fuori dall’ambito di applicazione della legge quei controlli finalizzati ad accertare un presunto illecito del dipendente lesivo del patrimonio o dell’immagine aziendale.
Il Jobs Act (D.Lgs. 151/2015) ha riformato l’art. 4 dello Statuto cancellando il chiaro divieto di cui al comma 1 e ha introdotto una disciplina che varia a seconda degli strumenti impiegati.
Fermo restando che gli impianti di videosorveglianza dai quali derivi il controllo a distanza dei dipendenti possano essere utilizzati solo per le esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza e – novità della riforma – anche per esigenze di tutela del patrimonio aziendale e devono essere installati solo in presenza di un accordo stipulato con i sindacati le disposizioni non si applicano invece agli strumenti che il lavoratore utilizza per rendere la prestazione lavorativa – ad esempio il pc o uno smarthpone – e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
Fin qui abbiamo visto perché e in quale modo l’ordinamento riconosce e tutela il diritto di controllo del datore ma quali sono i limiti a questo potere e quali i diritti del lavoratore?
Il dipendente, oltre a vantare un diritto al rispetto della dignità umana già, peraltro, insito nel rapporto di lavoro subordinato, può contare anche sul diritto alla riservatezza che trova radice, ancora una volta, nella Costituzione e, più nel dettaglio, nelle previsioni del Codice per la tutela dei dati personali (D.lgs. 196/2003), nelle normative e nei provvedimenti delle Autorità a ciò delegate.
È lo stesso novellato art. 4 dello Statuto a sancire che i dati acquisiti ai sensi dei commi 1 e 2 possono essere utilizzati per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che venga data al lavoratore adeguata informazione delle modalità di uso e di svolgimento dei controlli e comunque nel rispetto del D.lgs. 196/2003.
In linea generale i controlli devono risultare necessari o indispensabili e avere carattere di eccezionalità (principio di necessità), devono essere finalizzati a garantire la sicurezza, la continuità aziendale o a prevenire e reprimere illeciti (principio di finalità), devono inoltre essere strettamente proporzionati e non eccedenti lo scopo della verifica (principio di proporzionalità). Infine, il dipendente deve essere preventivamente e adeguatamente informato circa i limiti di utilizzo degli strumenti di controllo e delle sanzioni previste in caso di violazioni di tali limiti (principio di trasparenza) e il datore ha il dovere di proteggere adeguatamente i dati raccolti (principio di sicurezza).
Abbiamo visto come L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori consenta al datore di utilizzare strumenti tecnologici dai quali derivi anche la possibilità di un eventuale controllo sulla prestazione dei dipendenti solo per esigenze tecniche, produttive ed organizzative, oltre che per la tutela del patrimonio e della sicurezza aziendale. La presenza di strumenti di videosorveglianza avendo però ad oggetto dati personali, fa sorgere l’obbligo in capo al datore di lavoro di informare i soggetti interessati.
Tuttavia, tale limitazione non trova applicazione in tutte quelle ipotesi in cui i controlli siano posti in essere al fine di accertare eventuali illeciti extracontrattuali, potenzialmente dannosi per il patrimonio e l’immagine aziendale. Quindi l'installazione di telecamere sul luogo di lavoro, al fine di verificare eventuali comportamenti illeciti, non viola la privacy dei dipendenti.
Risultano pertanto legittimi i controlli "difensivi occulti”, anche ad opera di agenzie investigative, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, purché siano effettuati con modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti (Cassazione civile, sez. lav. n.10636/2017).
A conferma di tale orientamento, la giurisprudenza più recente ha ritenuto legittime le investigazioni di natura difensiva, volte all’accertamento di eventuali condotte pregiudizievoli tenute dal lavoratore, anche al di fuori del contesto aziendale, e suscettibili di costituire giustificati motivi o giuste cause di risoluzione del rapporto di lavoro.
Il datore ha la possibilità di incaricare Agenzie preposte all’attività investigativa al fine di tutelare e difendere i propri interessi. La ratio consiste nell’evitare controlli invasivi, sproporzionati e prolungati sull’attività lavorativa dei dipendenti, in particolare quando il confine tra l’utilizzo di apparecchiature di sorveglianza per finalità aziendali si confonde con l’uso privato e personale di tali strumenti. Affidarsi all’esperienza di un’agenzia investigativa, infatti permette di agire con discrezione e nel pieno rispetto della dignità e della libertà dei dipendenti.
L'agenzia investigativa Dogma ha maturato una significativa esperienza nell'acquisizione e presentazione di prove nell'ambito dei controlli difensivi, attività che risulta essere necessaria nei casi di contestazioni fondate su prove documentali.
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