Un lavoratore dipendente, a norma della legge 104/1992, può beneficiare di permessi retribuiti – fino a un massimo di tre giorni al mese, anche frazionabili in ore – per assistere un disabile in condizioni di gravità verso il quale sia genitore, coniuge, parte di un’unione civile, convivente di fatto o parente entro il secondo grado (entro il terzo se i suddetti sono a loro volta over 65 o colpiti da grave disabilità).
I permessi sono finanziati economicamente dall’INPS o dal datore di lavoro che ne anticipa l’importo e sono pensati per agevolare l’opera di assistenza dei cosiddetti “caregiver”.
Il dipendente che utilizzi in maniera impropria i permessi previsti e non si dedichi all’assistenza del parente colpito da disabilità grave va incontro al licenziamento per giusta causa perché la condotta integra una grave violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza che derivano dal contratto di lavoro subordinato, oltre a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che lo lega al datore di lavoro. Essendo poi i permessi coperti economicamente dall’Inps il lavoratore rischia inoltre di incorrere nel reato di truffa aggravata (art. 640 c.p.).
L’onere di provare l’abuso dei permessi per assistere il disabile grava sul datore di lavoro.
Stabilire però un confine netto e chiaro tra l’abuso e la fruizione legittima dei permessi non è sempre stato facile, come vedremo.
Stante la vaghezza della disposizione normativa è toccato ai tribunali ma soprattutto alla Cassazione interpretare il concetto di abuso. Nonostante si sia ormai delineato un orientamento prevalente che tende a considerare estensivamente l’attività di assistenza non sono mancati approcci ondivaghi.
Per trovare un punto fermo possiamo dire che, secondo la Cassazione, si configura un abuso quando manca chiaramente un nesso causale tra l’esonero dal lavoro e l’effettiva assistenza al disabile.
Possiamo qui offrire un esempio: il dipendente che utilizza il permesso ex legge 104 per attività ricreativa o per svolgere una seconda professione anziché prestare assistenza al parente disabile commette un illecito e difficilmente il suo ricorso avverso un licenziamento per giusta causa verrà accolto, proprio perché la fruizione del permesso è completamente disgiunta dalla motivazione per la quale questo è previsto.
Negli ultimi mesi sono state ben tre le sentenze e le ordinanze della Cassazione sul tema dell’abuso dei permessi ex l. 104.
1) I giudici di legittimità, con l’ordinanza 3 maggio 2024, n. 11999 hanno rigettato il ricorso di un dipendente licenziato per avere utilizzato impropriamente i permessi stabilendo che “pur non potendo intendersi [l’assistenza] esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, tuttavia essa deve comunque garantire al familiare disabile un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione e pertanto, ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto”.
2) Di segno parzialmente opposto è l’interpretazione fornita, a giugno, dal Tribunale di Ancona che ha ritenuto non più sufficiente dimostrare la mancata assistenza durante l’orario di lavoro, essendo necessario provare che l’assistenza non sia stata prestata nemmeno in altri momenti della giornata.
3) Infine, nei primi giorni di ottobre la Cassazione si è pronunciata ben due volte sulla questione.
La Corte, con l’ordinanza 10 ottobre 2024, n. 26417 ha ulteriormente ribadito che “integra ipotesi di abuso del diritto il comportamento del lavoratore che si avvalga del permesso ex art. 33 l. 104/1992 non per assistenza al familiare ma per soddisfare proprie esigenze personali”.
Nel caso di specie la dipendente di un’azienda era stata licenziata per aver utilizzato i permessi ex legge 104 per svolgere attività diverse da quelle strettamente assistenziali. La lavoratrice aveva potuto dimostrare che le attività contestate – acquisto di generi alimentari, farmaci, appuntamenti presso il medico e presso l’ufficio postale – erano invece connessi all’assistenza del padre invalido, non potendo questi attendere autonomamente a tali attività.
È stato quindi riaffermato che l’assistenza a persona con disabilità che legittima a godere dei permessi retribuiti “non va intesa come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione e che si configura abuso quando il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza in senso ampio in favore del familiare, da accertarsi nel merito”.
Un orientamento ribadito appena un giorno dopo con l’ordinanza 11 ottobre 2024, n. 26514 con la quale la Corte ha ribadito che la legge non prescrive una correlazione obbligatoria tra le ore lavoro e l’assistenza al disabile perché i permessi sono giornalieri e non fruiti su base oraria. L’attività di assistenza può dunque essere prestata liberamente purché, come già stabilito in precedenza, sussista il nesso causale tra l’assenza dal lavoro e la finalità di assistenza. I giudici hanno di fatto introdotto il concetto di “funzionalizzazione del tempo liberato”, stabilendo che il tempo reso disponibile dall’esonero dalle mansioni lavorative debba essere effettivamente impiegato, in maniera preminente, alla cura dei bisogni dell’assistito.
In sintesi, il dipendente è sanzionabile soltanto nel caso in cui utilizzi i permessi per attività completamente svincolate dalle esigenze assistenziali del disabile, ad esempio per partecipare a un evento (Cass. 30 settembre 2015, n. 8784 e Cass. 13 settembre 2016, n. 17968). Il dipendente non sarà però costretto a dedicarsi all’assistenza del parente disabile durante l’intero orario di lavoro e potrà pertanto, laddove esiste comunque il nesso causale, dedicarsi anche ad altre attività non strettamente connesse alle necessità di cura. Il concetto di assistenza va inoltre interpretato estensivamente ricomprendendo tutte quelle attività che si svolgono lontano dal domicilio dell’assistito ma che hanno comunque un legame con la sua condizione.
Concludendo, le pronunce più recenti invitano a una valutazione nel merito dei singoli casi, senza avallare automatismi.
Come è possibile accertare l’eventuale abuso commesso dal dipendente e ottenere le prove utili a sostenere il provvedimento di licenziamento?
Il datore di lavoro che nutra un sospetto circa l’utilizzo illegittimo dei permessi da parte di un suo dipendente dovrà per forza di cose rivolgersi a un’agenzia investigativa. Dobbiamo infatti tenere conto che l’abuso si perfeziona all’esterno del luogo di lavoro e che le recenti pronunce in giudizio estendono la verifica dell’abuso anche alle ore di tempo libero.
L’uso improprio dei permessi ex legge 104/1992 può pertanto essere accertato solo attraverso un’attività investigativa che preveda l’osservazione statica o dinamica del lavoratore (appostamento e pedinamento, anche elettronico) con l’acquisizione di materiale video-fotografico e strumenti di intelligence (ad esempio la SOCMINT, cioè il monitoraggio degli account social del soggetto indagato). Si tratta di attività che, se svolte da una persona inesperta, possono sfociare in una serie di reati (art. 612 bis, art. 615 bis c.p.).
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